Ti scrivo papà. Mentre vedo la luce che illumina i tuoi occhi verdi, fissa di fronte a me.
E non la lascio andare.
Che poi, detta tra noi, un pezzo di te non l’ho ancora lasciato andare, nonostante l’ultima volta che ho visto quella luce nei tuoi occhi sia stato poco più di dieci anni fa.
Mi sono tenuta stretta anche un pezzo dei miei rimpianti.
Suvvia, voglio dire, chi l’ha detto che bisogna lasciar andare ogni cosa, così, improvvisamente dal niente, senza assaporarla mentre la si lascia andare?
Hai idea di quante cose ho costruito in questi 10 anni anche grazie a quei rimpianti?
Ma certo che lo sai.
Sentivo di avere due alternative, papà: farne sofferenza o trasformarle in carburante.
Ho scelto la seconda.
Non ci affogo sicuramente dentro, no. E nemmeno mi si stringe più lo stomaco.
Oggi, no. Oggi mi fanno sorridere, abbassare le spalle e dondolare a destra e sinistra con gli occhi chiusi.
Semplicemente, li vedo, in tutto lo splendore con cui spingevano una ragazza di 20 anni a superare ogni limite che le si presentava davanti, pur di raggiungere in qualche modo l’estasi che provava a tre anni, quando incontrava il tuo sorriso, dopo settimane senza poterti abbracciare.
Ed ecco, sai cosa resta papà?
Resta la passione per questa vita, che ho risucchiato da ogni cellula del tuo corpo.
Resta il coraggio di rischiare, che ho strappato via da ogni istante in cui mi fissavi spingendomi a fare le piccole pazzie che mi venivano in mente.
Resta la voglia di lanciare il cuore oltre l’ostacolo, anche quando i saggi dicono “no”.
Che per quanto ne vogliamo parlare, io ho scelto te, sono sangue del tuo sangue, cellule delle tue cellule.
Ho preso la vita dopo di te e scelgo profondamente di guardare avanti, anche grazie a te.
Che se mi appoggio, io ti sento, tu ci sei. E mi lascia andare con una grazia infinita.
E io ti vedo, papà.
Dopo così tanti anni, ti vedo anche meglio. E mi accorgo di tutti i pezzi di te che ho cercato altrove.
Di tutti i passi, che senza accorgermene ho poggiato sulle tue orme.
Solo che a un certo punto sono inciampata in un sasso e mi sono ritrovata a terra, fuori da quel sentiero.
Sai, ho sorriso! E mi son detta “caspita, sono finita fuori posto”.
Eppure, nel mettere nuovamente il piede in quelle tue orme, ho sentito il fiato corto, una stretta allo stomaco e i brividi alle braccia.
Mi piace il tuo sentiero papà. Eppure, a piccole dosi, voglio mettere il piede fuori. Senza fretta, sai.
E resti bellissimo papà. Solo, ecco, mi accorgo che spesso ho raccolto frammenti dei tuoi sogni e ho sperato di realizzarli al posto tuo.
Sai, ha un sapore dolce, camminare sui tuoi passi. È come muovere i piedi, incantata, fissando il vuoto.
Eppure, il sapore che ha, uscire dall’incanto, è insuperabile. E tu resti meraviglioso, unico.
Semplicemente, mi accorgo di esserlo anch’io. Mi accorgo che la somma dei passi che segnano il mio destino, è fatta di un movimento che non corrisponde al tuo.
E continuo a vederti, sai?
Nei sogni appesi tra le mie paure. E nel sorriso di mio figlio, come ti avesse rubato il volto.
Ti vedo ad ogni passo, lungo il marciapiede, fuori casa, che segna il confine tra l’erba e la strada. Non sono sempre stata brava a distinguere i confini, papà.
Ma parliamoci chiaro, (e facciamoci una risata!) da chi vuoi che l’abbia imparato?
Il più delle volte sono inciampata in un posto che non era il mio. Eppure, l’ho riempito con tutta la dignità che avevo dentro.
Fuori posto è mica solo un concetto di sistemica!
Che poi, per ognuno sarà qualcos’altro. Per me resta un dono. Da frequentare a piccole dosi.
E, ancora, ti vedo. Nei movimenti delle persone, nei movimenti degli alberi, dei rami, delle foglie.
Nei movimenti dell’anima.
Nei movimenti lenti, armoniosi, lunghi, interrotti.
Semplicemente ti vedo, da una distanza diversa, e da qui, vedo anche me.
Guardami anche ora, con quella luce bellissima che illumina i tuoi occhi verdi, mentre poggio i piedi in un sentiero diverso dal tuo.
Se anche non conosco in modo chiaro la destinazione, sento che posso spostarmi, un passo alla volta.
E il mio respiro è più leggero di prima.
Articolo a cura di Ketlin Curo
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